Professore, perché non è stato mai trattato effettivamente il tema di La cultura dell’infanzia in Italia né quello sui modi di concepire il ragazzo?
Non si può dire che non ci sia una cultura dell’Infanzia in Italia, anzi si può dire che il tema è antico in quanto trattato dai greci e, poi, dai latini.
La metafora colere infantem/coltivare l’infante – il non parlante rimanda ad una coltivazione del bambino considerato come una piantina. L’immagine è tipica del registro agricolo, centrato su colere, che sottende studium (amore e specifico interesse) e cura (amore preoccupato ed ansioso) e su infans, inteso non solo nella fase iniziale afantica ma anche quella fantica fino alla pubertà, secondo le linee proprie della pedagogia greca e di Quintiliano.
Anzi bisogna affermare che sempre si è discusso, parlato della cultura dell’infanzia, limitatamente all’educazione, basata giustamente sull’educare (educere ad ) come processo modificante, che porta progressivamente dal non conoscere al conoscere, procedendo sulla base dell’errore per dare correttezza grazie anche all’esercizio, sotto la guida di un ductor, maestro, secondo linee di unitarietà, dinamicità, priorità, prospettività. Se, dunque, da una parte, c’è stata un’attenzione alla cultura dell’infanzia, da un’altra, in un certo senso, bisogna confessare che non esiste una vera cultura dell’infanzia in quanto, nonostante il rispetto al pensiero quintilianeo, espresso con Maxima debetur reverentia puero, l’insegnamento è stato un insegnare, mediante signa, propri dell’adulto, che guida, in un unilaterale lavoro secondo il sistema conformato e convenzionale sociale, economico, politico, teso a formare mediante modelli preesistenti il discepolo. conformandolo nella cultura esistente, in aggiunta e in rapporto con il condizionamento del contesto e dei media secondo un’impostazione specifica dell’erudizione (e.rudis passare dalla rozzezza alla civiltà, dall’informe struttura giovanile al sistema della maturità moderato).
Praticamente non si rispetta l’infante, ma lo si condiziona creando un esemplare della stessa conformazione dell’adulto in quanto si ritiene giusta la definizione del giovane immaturo e dell’adulto maturo, secondo una tradizione marcatamente maschilista e senile.
Sembra che solo in questo ultimo ventennio, almeno sul piano teorico, in Italia si sia entrati correttamente nella cultura dell’infanzia, grazie specialmente ai contributi dell’antropologia, dell’etologia, della linguistica (in senso semantico, e socio-psico-semiologico), della epistemologia e della docimologia: da queste scienze viene la lezione tecnica sullo studio e sulla cura dell’infante.
Lo studio sistemico del bambino (anche in senso neuropsichico ed auxologico), la sperimentazione sulle aree affettive, motorie, cognitive, sociali, l’osservazione sistematica dei comportamenti a seconda della fascia di età in relazione ad un processo auxo-socio-psichico e soprattutto il rilievo dato al linguaggio, come chiave di lettura dell’universo infantile, autorizzano in situazione una operatività sulla base di una diagnosi valutativa (riferita ad un’ anamnesi specifica) che permette un costante orientamento operativo e formativo, in rapporto all’effettivo sistema culturale informativo, senza modelli, ma solo con paradigmi esemplari. In tal senso si è sviluppato anche in Italia un processo culturale puerocentrico, non una cultura infantile. Questa si basa sulla conoscenza del bambino, visto come costruttore fantastico e sentimentale di un mondo, esaminato dall’angolazione ludica puerile, senza l’ottica funzionale adulta, il quale si muove per conoscere sé e il proprio corpo, socializza per porsi in un continuum ludico, che, però, avendo già i segni della funzionalità e della razionalità, non deve essere turbato da interferenze dell’ adultismo, specie se coercitive.
Che cosa comporta, professore, una cultura dell’infanzia così intesa?
Comporterebbe (meglio usare il condizionale che traduce la non possibilità di attuazione sul piano operativo con le sottese frustrazioni di questi ultimi anni) un radicale cambiamento del sistema politico (anch’esso vecchio e modellato su criteri da una parte comunisti togliattiani e quindi sovietici, e da un’altra liberale e quindi anglosassone ed americano) sociale-cristiano (caritativo ed assistenziale), culturale e scolastico in quanto una microstruttura, affetta da malattia, non può essere curata settorialmente con interventi locali e puntuali poiché è segno di un sistema malato, che, perciò, deve essere integralmente sanato. Ora il sistema scolastico, malato, infettato ulteriormente dagli altri sistemi, con cui interagisce, non favorisce il tentativo, necessariamente teorico, di pochi che procedono paradigmaticamente in situazioni concrete, ma parziali e limitate, operando, seppure efficacemente, in condizioni di disagio. Inoltre per la nascita di una cultura (risultanza di un processo eruditivo, educativo, formativo, come somma di competenze , abilità e capacità, esplicate sul piano pratico in situazioni oggettive, coerentemente ad una decisionalità per una ruolizzazione) necessita la compresenza di forze interattive già ruolizzate e mature, capaci di orientare grazie ad operazioni docimologiche, strutturali sistemiche. Ora, col bambino coagiscono ed interagiscono famiglia, società, scuola, stato con compiti, considerati diversi, ma in effetti eguali se si tiene presente il fine educativo e/o formativo, specie se il procedimento è univoco sul piano dell’unitarietà metodologica.
Ne consegue che nel momento operativo scolastico (sia strutturale che sistemico) le singole fasce, turbate nella loro sfera, operano saltuariamente ed irrazionalmente, impedendosi reciprocamente, non raggiungendo gli obiettivi, disperdendosi in un lavoro settoriale, burocratico e quotidiano: una prova è il consiglio di classe dove le componenti genitori, alunni, insegnanti, si fronteggiano su posizioni diverse, senza avere la coscienza del loro ruolo specifico, dei compiti, delle funzioni in una libertà di metodo (utile ai fini del pluralismo democratico!) e varietà procedurale, con l’esigenza di una scansione programmatica e di rilievi esterni d’ordine disciplinare.
E’ dunque da ipotizzare una nuova tipologia di insegnamento?
Ritengo che non si possa insegnare se non si stacca nettamente l’alunno, la scuola e la cultura dell’infanzia dall’ambito della città (intesa come il mondo delle interferenze politiche sociali economiche ecc) e non si situi in zone lontane dalla cultura ufficiale, convenzionale, conformata dell’adulto: ci vogliono strutture ed edifici scolastici lontani dalla vita cittadina, dove far crescere la pianta dell’anthropos, secondo le concezioni umane funzionali razionali scettiche: molti conoscono i miei progetti di scuola separata in zone agricole, in immense aree sia per i ragazzi (3-13) che per giovani (15-18).
Comunque. a mio parere, se si fa un’analisi superficiale sulla scuola e si procede statisticamente va a finire che la scuola italiana è una delle migliori in Europa perché conforme ai suoi compiti primari di formazione e di educazione generale e capace di dare, a certi livelli, possibilità occupazionali e professionali come per il passato.
Se si fa uno studio serio e mirato alle singole strutture e poi si valuta l’intero sistema di insegnamento-apprendimento si rileva un disagio in tutti gli operatori scolastici, una crisi culturale, un malessere diffuso.
L’insegnante in un sistema basato sullo scambio culturale in un continuo passaggio dalla fase di ricevenza a quella di emittenza e viceversa in una variabilità situazionale, è vittima incolpevole.
Egli è stato abilitato all’insegnamento senza la necessaria preparazione pedagogica, psicologica, docimologica per cui la sua possibilità di insegnamento (dal tardo latino insignare incidere, imprimendo signa, segni come marchi di riconoscimento sul bestiame in un codice agricolo) non marchia alunni, che sono di un altro codice.
Inoltre né l’insegnante né l’alunno conoscono la comunicazione che sottende un processo non direttivo, ma paritario, che trasforma la superiorità dell’adulto, che imprime segnali, in cooperazione e cogestione, sulla base di dati informativi in uno scambievole aiuto in una interazione psico-sociale, in un ritrovamento dei comportamenti individuali dei singoli giovani cointeressati all’argomento e al problema, tesi a passare da uno stato di dipendenza a quello della partecipazione, al fine di consentire, non assentire.
D’altra parte con la comunicazione la competenza si sostituisce alla superiorità gerarchica, in quanto non c’è lezione con l’insegnamento tradizionale di un lector medievale.
Questi aveva abilità di lettura ed insegnava tramite la conoscenza delle Sacre Scritture in un tentativo di tradere la cultura del passato al presente per un’ attualizzazione concreta: l’insegnante, invece, ha la docenza, cioè una risultanza di conoscenze interrelate in una visione sincronica, che ne sottende una diacronica, con valutazione dell’asse unitario sincronico-diacronico, per una proiezione possibile in un sistema ordinato, le cui strutture funzionali si esprimono in una fusione operativa continua nella prassi quotidiana.
La docenza implica un’informazione ampia e rielaborata personalmente data per una ricerca oggettiva regolata, a seconda delle esigenze dell’alunno e della classe, già tramata in uno schema paradigmatico e sintagmatico, metodologico, che autorizza una decisionalità in situazione lavorativa, tagli, riconversioni (specie in caso di errori e deviazioni tematiche e procedurali).
Di conseguenza la docenza comporta professionalità di chi docet insegna, svolgendo una funzione educativa di avvio, di guida di orientamento nella ricerca del Sàpere (esperienza conoscitiva, intesa come crescita dell’essere, individuale, che assapora , provando ciò che càpita).
Docere diventa così un insegnare pratico in quanto autorizza a mostrare i passi da fare, la via da seguire marcando i signa le orme spiegando il percorso formando un iter sempre nuovo in un’ evidenziazione delle abilità decisionali in rapporto alla situazione storico-socio-economico-politica, culturale e letteraria, in relazione all’altro viandante , nel rispetto della contestualità altrui e per un vantaggio personale: esso è anche segno di autorevolezza di un’ auctoritas riconosciuta.
Docere è segnare i connotatori, dopo aver fatto la situazione in una ricostruzione del sistema-struttura per fare un punto situazionale al fine di un intervento costruttivo sull’altro, sulla base della conoscenza scolastica.L’insegnante però , formatosi crocianamente (magari) attento talvolta al nesso opera -ambiente, segue, a volte l’angolazione desanctisiana e gramsciana e crede di poter dare la sua preparazione scolastico-nominale, come informazione, all’alunno. Non riesce, però, in tale operazione perché, avendo tale formazione e seguendo i programmi ancora gentiliani, non ha effettiva competenza (come sistema di conoscenze acquisite sul piano lessico-morfosintattico, su quello semantico e referenziale – e tanto meno una abilità esecutiva che permetta di fare una situazione storica tale da confrontare col presente, in modo da fare proiezioni per un intervento costruttivo).
Egli non ha una professionalità come il medico che dall’esame mediante anamnesi e da quello diretto strutturale in situazione, può diagnosticare e dare una terapia su base probabilistica,tuzioristica, in relazione al quadro contingente delle analisi cliniche: non è abilitato ad un lavoro sistemico-strutturale e tanto meno ad una valutazione con giudizio epistemico, essendo preso dal nominalismo e dal nozionismo ideologico. E’ abituato, in una continua ripartizione dei programmi ministeriali, a procedere in un faticoso, quanto inutile lavoro di manovalanza intellettuale, che lo costringe ad obbedire a certe scadenze trimestrali o quadrimestrali e a dare “quantità informativa”. Non ha neppure possibilità effettive di programmare, progettare, pianificare, seppure si parli di attività curricolare, di interdisciplinarità e nei collegi dei docenti e nei consigli di classe. Demotivato e poco pagato assiste passivamente, nonostante qualche incentivazione orale del preside o di colleghi più velleitari e spontaneistici, comunque, delusi dalla scuola e dal sistema governativo, che privilegia categorie più produttive.
L’insegnante, non essendo orientato pedagogicamente e didatticamente fa scuola insegnando ciò che sa e ciò che deve insegnare, secondo tradizione, senza una logica costruttiva, senza attenzione all’alunno, senza porsi il problema educativo: egli è sul piano dell’informazione emotivamente spontaneo, cosciente di essere in una condizione di sottoproletariato letterato, costretto a svolgere un ruolo senza funzione, disturbato dai mass media, dalla famiglia, dalla chiesa, dai sindacati, dal collegialismo e dall’assemblearismo.
Il povero insegnante è trascinato all’apatia dalla monotonia ripetitiva, agitato dal velleitarismo aggiornativo di dilettanti formatori ministeriali, profumatamente pagati, sindacalizzati: è ucciso nel suo elementare lavoro dalla pubblicazione specialistica propagandante una riforma scolastica mai attuata.
Reclutato secondo forme concorsuali facilmente pilotabili e con logiche clientelari partitiche, l’insegnante si presenta all’opinione pubblica con la tipologia di buon uomo connotato di buona cultura generale, senza una funzione sociale, in un momento di alta specializzazione e di ricercata produzione dove ogni imbecille che opera con impegno su una sola cosa raggiunge il massimo, data la semplicità del prodotto.
Espressione vecchia del sistema agricolo paesano il professore intruppato vive la sua esperienza scolastica senza confronto e senza personalità: gli errori del sistema scolastico (verticismo burocratico, impostazione ancora crociana e gentiliana, assemblearismo senza la competenza individuale, la collegialità senza la pianificazione soggettiva, l’obiettivismo senza l’oggettivismo, la sconnessione strutturale , il maggioritarismo come espressione della minoranza, l’oclocrazia come regime ecc.) sono spia di una situazione critica molto più complessa statale ed istituzionale, che condiziona il professore che può solo professare la sua nominale conoscenza, inadeguata ai tempi.
Ormai l’insegnante è considerato come colui che insegna perché non sa fare niente e perciò la scuola è diventata il rifugio di tutti i perdenti, gli scansafatiche, delle donne in cerca di una funzione, insomma un immenso teatrino dove si recita un ruolo di docenza senza saperla professare ed ognuno recita a modo suo.
Non è, però, il caso di generalizzare: ci sono molti insegnanti che lavorano seriamente specie gli uomini (meno le donne che salvo poche, vanno a scuola per ben altri motivi), non sono docenti gli ingegneri, gli architetti, psicologi, dottori in discipline giuridiche o i tecnici e i commercialisti, revisori di conti ecc., uomini che hanno uno stipendio in più,ma non sanno neanche cosa vuol dire insegnare, come tutti i professori impegnati in politica.
Se necessita una nuova docenza con un nuovo insegnante, non è necessario anche un nuovo alunno, che abbia un diverso rapporto col professore?
Secondo me, per ottenere un nuovo rapporto tra le parti del sistema scolastico, specie tra alunno ed insegnante e tra alunno ed alunno e tra alunno e famiglia, è necessaria la comunicazione, intesa come azione del comunicare ( da cum munus) come procedimento verbale che intercorre tra emittente e ricevente, tramite un canale, in un contesto, con un codice, comune, per l’invio di un messaggio, connotato sulla base lessicale da due valenze significative, compito e dono in reciprocità.
La comunicazione rientra nell’area semantica aristocratica in quanto munus è termine che sottende da una parte il compito del nobile (militare e sacerdotale) e dall’altra il dono è espressione comunicativa di due patroni secondo le formule della munificentia sul piano della paritarietà.
Ora la nostra società di base agricola acculturata secondo linee americane, industrializzata rapidamente, evidenzia la crisi di valori specie nel linguaggio misto.
Esso, essendo una risultanza confusa di cultura agricola e industriale, risulta una strana lingua usata da soggetti né agricoli né industriali, che vivono senza una propria cultura.
Il linguaggio presenta forme della tradizione operativa paterna con parametri valutativi immediati, derivati dalla funzionalità industriale propria della organizzazione sistemica. in cui si vive
Inoltre esso ha in sé la presunzione di chi non comunica perché non ascolta e non ha rispetto dell’altro che in situazione ha possibilità paritarie e competenze medesime per la soluzione del problema, in un’arroganza di modi, senza più la docilità contadina.
Nel rapporto tra insegnante ed alunno i due hanno il ruolo di emittente e di ricevente a seconda delle situazioni che autorizzano l’interscambio in quanto l’uno assume la leadership verbale a seconda della competenza mentre l’altro interiorizza nell’ascolto il messaggio ricevuto per rimandarlo in relazione alla sua ricchezza cambiato e modificato alla luce delle sue valutazioni e del suo patrimonio culturale in un processo educativo senza fine.
Il rapporto perciò è connotato da un continuo flusso di pensiero interpersonale per un obiettivo comune da conseguire dalle persone interessate, in un’interazione di modi e di piani senza la gerarchia, in relazione alla competenza.
Ciò avviene però solo in un rapporto connotato da rispetto e da empateia: ora, il rapporto sta diventando sempre più problematico per la disistima dei docenti e per la sfrenatezza dei ragazzi abituati ad avere quanto vogliono, ad essere protagonisti anche nel male: il processo educativo diventa sempre più difficile e la stessa comunicazione è considerata espressione di debolezza davanti all’arroganza giovanile, volgare perfino nelle manifestazioni verbali.
E la famiglia come si immette nel rapporto comunicativo tra insegnante ed alunno?
La famiglia, disagiata, ha demandato in questi ultimi tempi l’educazione ai professori e sembra non volere entrare nella operatività della sfera dell’insegnante, mentre quella agiata segue e complica la vita dell’insegnante con le sue interferenze ostacolando il lavoro.
La famiglia non dovrebbe entrare nel campo tecnico didattico-metodologico, dove l’insegnante dovrebbe fare le sue sperimentazioni e svolgere il suo compito servendosi anche dell’ausilio della famiglie e delle istituzioni in senso formativo, dove è necessario procedere di pari passo secondo la stessa metodologia per meglio definire la personalità dell’allievo.
Certamente la famiglia può, là dove è possibile, entrare anche in merito scolastico, ma deve assecondare il processo educativo in modo da coadiuvare il docente ( senza interferire in problemi tecnici e valutativi) o il preside sulla gestione scolastica specie in caso di autonomia, data la rappresentanza del consiglio di istituto.
In conclusione il carrozzone della scuola, anche con una cultura dell’infanzia all’italiana, può andare avanti con un qualche successo perfino in Europa?
Noi italiani siamo i maestri di un vivere equivoco e contraddittorio e sappiamo lentamente seguire gli altri e avviarci verso una certa correttezza formale e quindi scolasticamente forse potremo anche allinearci, ma scieremo come quelli che non hanno i fondamentali e che spesso sono pericolosi sulle piste per sé e per gli altri, se non procederemo con metodo.