Il giudice di Filone Alessandrino

Il giudice di Filone alessandrino

                   L E T T U R A   di Filone Alessandrino 

 Ta  Peri Dikastou  – Le cose circa IL GIUDICE-

  Ai miei cari amici  

Marcello Caioni, Marco Cinciripini ed Andrea Grandoni

 

  DE  IUDICE 

 di Filone Aessandrino 

Le sacre leggi non solo esigono  un animo sincero,  tranquillo  e non turbato da quelli, che seguono le regole di Mosè, ma soprattutto da quelli, a cui tocca il potere di giudicare o per elezione o per caso.

Sarebbe assurdo che fossero pertinaci nella colpa quelli che prescrivono il diritto agli altri: a loro bisogna richiedere, invece, una vita esemplare ed encomiabile.

Come, infatti, il fuoco, che brucia qualunque cosa gli si accosti, accende violentemente dapprima le cose a lui connaturali e, come  la neve, al contrario, raffredda quelle fredde per natura  e le altre, così il giudice deve essere pieno di giustizia quando sta per amministrare la giustizia ad un altro, dal quale, come da una fonte,  promanano le dolci acque della legge, bevibili da chi ha sete di giustizia. cfr. Concessione della giustizia dal signore a Salomone   I Re,3,1-13,  (da cui gli sciofetim – Shin, Pe con due puntini,Tet ,Iod  Men-  Deuteronomio 16.18-21: porrai dei giudici e funzionari  in tutte le tue città, che il signore, tuo Dio,  ti concede per ogni tua tribù e giudicheranno il popolo con vera giustizia. Non torcere il diritto, non avere riguardi di sorta e non accettare doni  perché ogni dono  accieca gli occhi dei saggi e rende tortuose le parole dei giusti. La giustizia,  la vera giustizia, tu seguirai affinché tu viva  ed erediti la terra,  che il signore tuo Dio  sta per darti.   Non pianterai asceroth o qualsiasi albero presso l’altare del signore tuo Dio e non ti erigerai  alcuna di quelle steli -bétili- che il signore tuo Dio odia).

Ciò accadrà finalmente così  se chi sale il tribunale per giudicare, pensa di essere giudicato non meno di giudicare  e, contemporaneamente, assuma la prudenza per non essere ingannato, la giustizia per dare a ciascuno il suo, la fortezza per non essere piegato dalle preghiere e dalla pietà,  da infierire sulle bande di delinquenti.

Infatti bisognerà stimare benemerito dello stato  chiunque avrà a cuore queste virtù come chi seda,  al pari di un buon nocchiero, le tempeste degli affari, affidati alla sua lealtà per la sicurezza e salute di quelli che dipendono dal suo arbitrio.

Prima di ogni cosa la legge ordina di badare di non sentire la vana esposizione dei fatti come se dicesse:o tu, cura di avere le orecchie ben “purgate”-liberate da scorie

Saranno ben purgate  se saranno ripulite  piuttosto spesso dai dotti discorsi, se escludono le vane, troppo usate, volgari, condannabili favole di finzione scenica e poetica, che esagerano con molte parole le cose da nulla.

Da questo risulta chiaro di non accogliere  vana diceria  o qualcos’altro  concorde con quanto detto precedentemente.

Chi accetta testimoni auricolari, accetta  in modo vano, non sano: infatti gli occhi  si frappongono intervenendo tra le cose stesse e in un certo senso  toccano gli affari, li percepiscono tutti, con l’aiuto della luce, tramite cui vengono tutti  illuminati e colti.

Le orecchie, poi, come disse rettamente uno degli antichi, hanno minore fede  degli occhi, come quelle che non hanno un rapporto con le cose stesse, ma con i discorsi, che interpretano le cose, che non seguono sempre e necessariamente il vero.

Mi sembra che  alcuni legislatori greci desunsero questo capitolo della legge  dalle santissime tavole di Mosè e proibirono di portare  testimonianza secondo l’udito: non bisogna giudicare certe quelle cose che uno vede, né egualmente di sicura fede quelle cose che uno ascolta.

Il secondo precetto di un giudice è di non ricevere doni: i doni, infatti, come dice la legge, accecano gli occhi, ostacolano la giustizia, costringono la mente ad allontanarsi dalla retta via.

Inoltre è da uomo scellerato essere indotto all’ ingiustizia tramite doni e da uomo pessimo  non rendere giustizia senza  premio, per la sua opera.

Vi sono alcuni cittadini, pretestati,  intermedi tra i giusti e gli ingiusti, che, pur educati a difendere gli oppressi dagli oppressori, si comportano come giudici venali e mercenari.

E se qualcuno si lamenta, essi negano di  aver prevaricato e che la lite l’ha vinta chi doveva e che la parte avversa è stata giustamente vinta.

Questa scusa è malvagia: bisogna infatti che ci siano due qualità in una sentenza di un buon giudice: che sia incorrotta e legittima.

Il giudice, corrotto da doni  non comprende, del resto, di disonorare la giustizia, bellissima per sua natura, e pecca volutamente: prima perché si abitua all’avidità di denaro, roccaforte di ogni iniquità, poi perché, accettato il denaro, punisce quello a cui avrebbe dovuto rendere giustizia.

Perciò Mosè  in modo salutare ammonisce di dover amministrare la giustizia secondo diritto, sottendendo che la si amministra ingiustamente talora se i presidenti aspirano ai doni, non tanto nei giudizi, ma, direi, quasi in tutte le attività giornaliere, sia  per mare che per terra – appunto perché è possibile trovare qualcuno che ridà un piccolo deposito al fine  di insidiare di più quello che riceve che per giovargli, cioè per poter, data prova di fiducia  nel piccolo,  prendere l’intrappolato con maggiore perfidia.

Questo è  non fare giustizia secondo diritto perché la restituzione della cosa altrui è fatta  per  permettere di accumulare un guadagno maggiore.

La causa principale di peccati di tal genere è l’abitudine alla bugia, con cui fin dalle fasce  le nutrici  e le madri  e tutta la schiera di servi e di liberi imbevono il loro pupillo e lo educano sempre con fatti e con parole.

Questo vizio si radica nell’animo come se fosse connaturato, ma anche se fosse aggiunto dalla natura,  bisogna che sia estirpato con una sistematica  pratica della virtù.

Che cosa infatti c’è di  prezioso come la verità?

E questa il legislatore, sapiente, scrisse nel posto più santo, in quella parte della veste pontificia, dove è la principale forza dell’anima, affinché rendesse  il sacerdote più augusto mediante questo ornamento.

alla verità aggiunse la  virtù congiunta, che egli chiama manifestazione, affinché fossero come  immagini di un discorso: questa o è concepita nell’animo  oppure si manifesta.

Infatti la verità ha bisogno della manifestazione tramite cui si apre agli altri, qualunque cosa sia nascosta nell’animo, come l’ altra ha bisogno  della verità per la perfezione della vita e delle azioni, tramite le quali si giunge alla felicità.

Terzo precetto per un giudice è che esamini le cause delle parti, prima del giudizio. Eliminato ogni rispetto delle persone, sia che esse siano cittadini, amici, familiari sia invece avversari, estranei, forestieri, né l’amicizia né l’odio impedisca in qualche modo l’indagine, altrimenti bisogna  percuotere il giudice come cieco che cammina senza bastone perché non guida né aiuta  nessuno.

Perciò  un buon giudice non deve guardare  le persone che sono giudicate, deve piuttosto considerare la pura e nuda sola natura delle cause per non giudicare secondo opinione, ma secondo verità  e pensare che il giudizio è cosa  di Dio, di cui  lui, giudice, è ministro e procuratore.

Al procuratore non compete ciò che è di Dio, dal quale come ottimo riceve  questo deposito, come il migliore di tutte le cose.

Oltre agli altri già detti precetti ce n’è un altro molto notevole, quello  di non commiserare il povero poiché il nostro legislatore condisce altrove  tutte le leggi con l’umanità e la pietà e propina sanzioni e minacce  per i superbi e gli arroganti, propone grandi premi a chi aiuta quelli che si trovano in difficoltà, a chi conserva i propri beni non come propri e li comunica con  gli altri, che ne hanno bisogno.

Vera è  la sentenza del famoso antico fondatore che gli uomini  mai si avvicinano di più alla somiglianza di Dio, se non quando sono benefici.

Che cosa, dunque, può accadere di meglio del fatto che  la creatura imita Dio immortale e  non creato?

Pertanto, il ricco non custodisca nel tesoro domestico oro ed argento, ma lo metta in mezzo  per alleviare i poveri con la benevolenza, né, seppure uomo illustre, alzi la testa ma, desiderando vivere  in modo paritario, permetta di godere della libertà anche ai non illustri.

Chiunque si innalzi per forza sia protettore dei più deboli, non percuota né getti fuori gli inferiori, come nel pancrazio, desideri invece giovare con le proprie forze anche agli altri.

Chi attinge infatti alle fonti della sapienza, caccia dal suo animo  l’invidia ed inoltre va in aiuto all’ altro, facendo passare con discorsi nella sua anima  la conoscenza tramite  le orecchie.

Se trova giovani di buona indole, come polloni di nobile pianta, gode  pensando di avere eredi della ricchezza spirituale nascosta, che sola è vera ricchezza.

Perciò li prende con sé e coltiva i loro ingegni finché non li conferma nella virtù   fino a vedere il frutto prodotto.

Le leggi sono piene zeppe di precetti ed esempi di questo genere  e sono suddivise distintamente a favore dei bisognosi e perciò non è lecito commiserarli solo nel giudizio.

Infatti la commiserazione è dovuta agli infelici: chiunque di sua volontà fa male  non é infelice, ma iniquo; del resto la pena è proposta per gli iniqui, come l’onore e il premio per i giusti.

Pertanto a nessun povero per la sua povertà può essere rimessa la pena, se merita non la commiserazione, ma la pena.

E chi si  appresta a giudicare, deve, come un buon banchiere, distinguere la natura degli affari, affinché, cambiati i segni, non siano confusi i buoni con i cattivi.

Avrei potuto dire anche molte altre cose sui falsi testimoni e sui giudici, ma per non essere troppo prolisso passerò all’ultimo precetto del decalogo, che in breve contiene così come tutti gli altri, il sintagma: non desiderare.

 

Giustizia e giudici in Giudea

In Giudea l’educazione, fin dai tempi più antichi,  verteva sulla giustizia e perciò era privilegio dei leviti e dei sacerdoti, ma si era comparata con quella di altri popoli, che forse avevano la stessa matrice.

Infatti il mazdeismo, praticato dai medi  fin dall’ottavo secolo era un culto nazionale che non comportava né templi né statue come quello ebraico.

Il dio Supremo era Auhra Mazda, simboleggiato dalla volta celeste, mentre il creato era sorto da una coppia di dei, Anahita, dea della fecondità e Mitra, dio fecondatore. Grazie a loro il caos iniziale cessava ed iniziava la distinzione in elementi ordinati ed ordinanti sotto forma di dei, il fuoco, l’aria, la terra, l’acqua.

La novità del mazdeismo  era nella concezione dualistica morale che rappresentava la lotta tra il bene e il male  e nella idea nuova di un Messia, la cui venuta sarebbe stata di salvezza al mondo e sarebbe stata  di epifania  del dio supremo  e del suo regno eterno.

La gerarchia sacerdotale meda, rappresentata dai Magi, assumeva nel settimo secolo maggior rilievo grazie a Zaratustra, un profeta che in un momento di crisi  sociale, risoltasi poi con la monarchia di Deioce, ( Re  dei medi 699-656 a.C, che riunì le tante tribù e costituì capitale Ecbatana   Cfr.  Erodoto,Storie, I,96-102) predicò la realizzazione del regno celeste mediante la purezza  dei costumi, la saggezza e la giustizia.

Il mondo persiano e quello ebraico sembrano pervasi dalla stessa linea morale e dalla stessa ricerca di giustizia, in quanto conformati allo stesso modo secondo i principi del mazdeismo.

L’ebraismo, modellato inizialmente da Mosè secondo la giustizia egizia, palese in Esodo (23,1-3;3,6-8)e in Deuteronomio(16,18;17,8) e in Levitico(19,15)  nel periodo babilonese e  in quello più lungo sotto i persiani, pur mantenendosi fedele alla Legge mosaica, inglobò elementi mazdaici ed achemenidi, che si legavano perfettamente al corpo giuridico mosaico e che rafforzavano i principi stessi dell’antica torah, attualizzandoli.

L’educazione stessa  giudaica del fanciullo e i tempi educativi risultano quasi eguali a quelli persiani, in quanto derivanti da una stessa fonte.

L’educazione persiana infatti presenta sorprendenti affinità con quella degli ebrei: il predominio di un popolo sull’altro forse può spiegare certe somiglianze di costume.

I due popoli seguono due percorsi, sebbene vicini e paralleli, in connessione con le loro tradizioni culturali, anche se quella giudaica, in quanto sottoposta, sembra aver subito qualche trasformazione e qualche influenza.

Il popolo giudaico cadde sotto i Persiani, dopo la sconfitta di Nabonide ad opera di Ciro, che prese Babilonia e imprigionò Baldassar, reggente figlio del re, nell’ottobre del 538 a. C.

Con la vittoria  i deportati in Babilonia e il territorio giudaico vennero sotto il potere persiano.

La Giudea  rimase sotto i persiani per più di due secoli, fino alla vittoria di Alessandro Magno su Dario III: inizia allora il periodo, che va dal  312 fino al 199, sotto i lagidi e dal 199 al 146 sotto i seleucidi, senza comprendere il periodo della vita di Alessandro e gli anni della lotta tra i diadochi:  il I e II libro dei Maccabei e Giuseppe Flavio datano dal 312  la storia, anno della vittoria a Gaza di Tolemeo su Demetrio.

La politica dei re persiani si basava sul rispetto della lingua e della religione dei popoli soggetti, che, stanziati nei loro territori, dovevano obbedire solo alle leggi generali dell’impero uniformandosi  solo alla virtù della giustizia.

Ciro quindi fu un benefattore per giudei che furono rinviati sotto la guida di Zorobabel e di Giosuè, un principe e un sacerdote nella loro patria di origine, dove si integrarono con quelli che erano rimasti, cercando di mantenere il culto di JHWH, inalterato, nonostante le contaminazioni avvenute nel corso della “cattività”.

Secondo Esdra (6,13-22) le grandi speranze dei rimpatriati si tradussero solo nella ricostruzione del tempio, che risulta finito nella Pasqua del 515, anche se si presentava  più piccolo e modesto rispetto a quello di Salomone (Zaccaria. 2.14-17; Aggeo,1e sgg. ).

In questo  ventennio circa, si era passati da Ciro  a Cambise e a Dario, e l’impero persiano aveva conquistato l’Egitto e quindi la terra di Giudea era stata attraversata dagli eserciti  e la popolazione era ancora rimasta secondo le regole tipiche della medizzazione, anelando ad un proprio tempio, a ritrovare in esso la propria identità di nazione.

D’altra parte  dal periodo di Dario, che aveva riformato il sistema persiano, la Giudea era stata inserita nella 5^ satrapia Transeufratea, che comprendeva la regione posta tra l’Eufrate e l’Habor, la Siria, la Palestina, la Fenicia e Cipro  e aveva avuto forse favori dalla corte  tanto da aver iniziato a costruire le fondamenta del tempio verso il 519 ( Esdra 5.1-16), nonostante l’ostilità dei vicini e poi da finirlo.

Bisogna precisare che nell’ambito della satrapia i persiani avevano suddiviso i popoli in province, governate da Pehah (governatori), tra loro ostili ed invidiosi, in caso di favori imperiali.

Gli episodi narrati in” Daniele” e la figura stessa dell’eunuco, favorito a corte, possono spiegare il clima  di gelosie e di invidie, in cui i giudei, spinti da Aggeo, (Cfr.Aggeo) un profeta contemporaneo di Zaccaria, postesilico, ricordato in Esdra (5,1; 6,14),ricominciarono la costruzione del tempio fino a  completarla.

Dopo un settantennio i giudei solo nel 445 con Artaserse ebbero il privilegio di costruire le mura di Gerusalemme in modo da separarsi dai paesi vicini  e così mantenere meglio le loro tradizioni.

In quel periodo tre generazioni si riunirono intorno al proprio santuario, conservando però i costumi acquisiti nel periodo babilonese mentre il sacerdozio  manteneva solo un ‘alleanza tra popolo e Dio  secondo criteri propri di una tradizione lassista, senza lo zelo mosaico, conseguenza di un “imbastardimento” culturale.

I sacerdoti, infatti, a detta di Malachia,(Cfr. Malachia), ultimo profeta, esercitavano male il loro ministero: offrivano sacrifici  a Dio con animali difettosi, trascuravano lo studio della Bibbia  o erano scarsamente preparati, non facevano pagare le decime, trascuravano il riposo sabbatico, non seguivano i poveri e le vedove, accettavano matrimoni misti e permettevano facilmente i divorzi, non avevano il vero timore di Dio poiché non veneravano il suo Nome.

Insomma la comunità non aveva una  fede che diversificasse  i giudei dagli altri popoli, con i quali convivevano.

Certo essi avevano tentato di separarsi dagli altri popoli chiedendo di potere ricostruire una prima volta le mura sotto Serse (485-465) e poi sotto Arteserse I (465-425), ma le loro speranze erano state frustrate dal pehah di Acco (Galilea) e di Samaria.

L’episodio di Ester, se inserito nell’epoca di Serse, potrebbe spiegare le speranza  di un popolo, che, accusato, doveva essere distrutto e che fu salvato dall’innamoramento del re per la bella nipote di Mardocheo, divenuto regina da ancella ( Cfr. Ester e Erodoto, VI, 64).

L’inizio di un riscatto e di una purificazione  comincia sotto il regno di Artaserse Icol 445 quando viene accordato a Neemia il permesso di ricostruire le mura di Gerusalemme: ciò aveva per il popolo ebraico un significato di separazione  e costituiva la  prima forma per la propria purificazione graduale per ritrovare la originaria purezza e rinnovare un nuovo patto tra il popolo e Dio.

La medizzazione aveva uniformato l’impero achemenide, basato sulla giustizia, aveva imposto Ahura Madza e specialmente i principi del bene e del  male, stravolgendo tanta parte della cultura giudaica, basata sull’unico Dio e si era risolta in una fonte di peccato per i giudei zelanti, che rifiutavano di integrarsi nel sistema persiano plurirazziale ed ecumenico.

Fino ad allora essi erano  stati sbandati e senza la legge che li vincolasse perchè il sacerdozio aveva deviato dalla retta via segnata da Mosè, permettendo nel lassismo generale la medizzazione contestuale: le varie ondate di ritorno avevano fatto incontrare vari gruppi con varia cultura medizzata e quindi Israel formava non un corpo compatto religiosamente, ma univa corpuscoli di fedeli di diverso zelo e di diversa interpretazione della legge  a seconda della propria storia e dell’ambiente di iniziale formazione.

Da Malachia sembra, comunque, che tre erano le cause di  maggiore contrasto: il Sabato, il matrimonio misto, l’elemosina.

Inoltre risulta  che grande era la tensione tra i gruppi perchè in tutti c’era quella volontà di   isolarsi e di rinnovare il patto che  si poteva  attuare, più tardi, con Esdra, nonostante le difficoltà e le opposizione dei  vicini.

Neemia esprime dunque l’esaltazione  per le mura ricostruite e  mostra, da governatore della provincia giudaica per conto  di Artaserse I, la compattezza popolare   al momento della ricostituzione di Gerusalemme come faro di civiltà per tutti gli ebrei della diaspora e per tutto il territorio provinciale.

La stessa suddivisione in 12 peleg, distretti mandamentali, che pur risalivano all’epoca babilonese, tende a ritrovare l’originaria impostazione culturale anche su un piano nominale geografico e a formare quasi un’isola nel sistema interno della 5 ^ satrapia.

Le successive riforme di Neemia, che effettua una seconda missione intorno al 430, vertono sulla regolamentazione del clero, sul riposo sabbatico  e fondamentalmente sul rinnovamento dell’alleanza tra il popolo santificato e Dio.

La sua opera viene completata da Esdra, “scriba e sacerdote della legge del regno di Dio” arrivato a Gerusalemme, in qualità di ispettore religioso forse nel 398 a. c.

Il riformatore è inviato da Artaserse II (404-358 ) col compito di cercare ufficialmente giudici  secondo il sistema giudiziario persiano, in base all’educazione persiana, secondo le regole di formazione medica.

Il sacerdote mentre cerca giudici che devono applicare giustamente la legge, con condanne a morte, con multe pecuniarie, con bandi di espulsione per i trasgressori, codifica  la legge, la fissa secondo la torah mosaica, pur mantenendosi apparentemente ligio a quella persiana, e ricostruisce l’unità ebraica  riconoscendo il culto di JHWH  e la superiorità del tempio di Gerusalemme, regolando le entrate tributarie, come segno di partecipazione  per i fedeli sparsi in tutto il regno persiano: Esdra insomma ricostituisce il patto di alleanza tra Popolo e Dio, in modo severo, in una ristrutturazione  totale del sistema giudaico, in una netta separazione dai non circoncisi.

Questi pochi dati storici sono stati scritti solo per far comprendere come la storia e cultura giudaica possano essere state influenzate da quelle persiane: non è il caso di operare più diffusamente sui rapporti storici e culturali intercorsi

Dalle fonti greche si hanno elementi utili per rilevare una marcata somiglianza tra il sistema persiano e quello giudaico: noi le abbiamo comparato con quelle bibliche perchè  vediamo la dipendenza culturale ebraica.

Erodoto (I, 136) afferma che i persiani” insegnano,a partire dall’età di cinque anni fino ai venti  solo tre cose : cavalcare , tirar d’arco e dire la verità” ed aggiunge (ibidem, I38) che la menzogna è da essere considerata la cosa più turpe.

Senofonte in Ciropedia (I, II, 3-14) tratta dell’educazione persiana: mostra “la piazza della liberta di Pasargade, divisa in quattro settori, uno per i fanciulli, uno per i giovani, uno per gli adulti, uno per coloro che non sono in età di portare le armi.

Precisa come  poi,  ognuno,  a seconda dell’età, debba presentarsi ad una certa ora e  come “per i fanciulli si scelgono fra gli anziani quelli che sembrino in grado di svilupparne al meglio le virtù, per i giovani quelli fra gli adulti che siano capaci di ottenere i migliori risultati educativi, per gli adulti gli uomini che siano più indicati a predisporli ad eseguire i compiti e gli ordini impartiti dalla suprema autorità e per gli anziani si selezionano dirigenti con l’incarico di sorvegliare che anch’essi compiano i loro doveri”.

Per lo storico i persiani usano la piazza  solo per l’educazione ed evitano il commercio perché implica la bugia, il raggiro, la disonestà, in quanto desiderosi di formare perfetti cittadini.

Secondo Senofonte le dodici tribù (anche se ne sono  citate dieci) dividono in gruppi i loro  figli e li affidano a relativi maestri, selezionati perché li educhino.

L’educazione si realizza in effetti  in due fasi: una che va dai 5 ai I5/6, detta dei fanciulli; l’altra dei giovani  dura 10 anni ed arriva fino ai 25/6.

L’autore greco  si mostra sorpreso nel vedere che i persiani “ frequentano la scuola  ed imparano i principi della giustizia e dichiarano essi stessi che vi si recano a questo scopo, proprio come da noi lo scolaro dice di andare a  scuola per imparare a leggere e a scrivere”.
Senofonte passa poi ad esaminare l’organizzazione della vita dei giovani: “per dieci anni, a partire da quando sono usciti dalla fanciullezza, dormono … nei pressi degli edifici governativi e questo sia per fare la guardia alla città sia per potenziare la loro attitudine alla temperanza…”.

Quando i persiani hanno compiuto il  decimo  anno tra i giovani possono passare nella categoria degli adulti e vivono per 25 anni  così: “ in primo luogo, non meno dei giovani, si tengono a disposizione dei magistrati per ogni incarico di salute pubblica che richieda l’intervento di individui maturi ormai nel carattere, ma tuttora vigorosi. In occasione di una campagna militare…Trascorsi i 25 anni previsti passano, poco più che cinquantenni,  nella classe di coloro che sono di nome e di fatto anziani, che svolgono le funzioni di giudici in quanto giudicano, non essendo più abili per la guerra, rimanendo in patria, le cause pubbliche e private: sono loro ad emettere le sentenze di morte e a scegliere tutti i magistrati.

 Se un giovane o un uomo maturo viola qualche norma tradizionale, il magistrato preposto alla singola tribù o chiunque altro lo desideri, ha facoltà di denunciarlo e gli anziani, dopo averlo ascoltato, emettono il verdetto: il condannato perde ogni suo diritto per il resto della vita.”

Ora la Bibbia,  postesilica,parla continuamente di giustizia e di temperanza, oltre che di prudenza e fortezza,  su cui è basata l’educazione ebraica,  ed evidenzia anche i precedenti  prestiti sumerici, egizi, ma specialmente persiani.

Secondo la concezione iranica e zaratustriana (cfr. Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, 329 –  361., Sansoni 1975,)  l’uomo è lacerato dal dissidio tra il male e il bene, ma procede nel cammino della vita mediante la giustizia (”arta” ).

Questa virtù,  citata nelle “gatha”,( parti dell’ Avesta) è continuamente chiesta ad Ahura Mazda da Zaratustra,  ossessionato dalla necessità del castigo dei malvagi e della ricompensa ai virtuosi, desideroso di esser assistito da Spenta Mainyu (lo spirito benefico) e di tenersi lontano da Angra Mainyu (lo spirito distruttore) .

La funzione di Dio nei confronti dell’uomo è ben marcata nel mazdeismo zaratustriano, che considera centrale  la provvidenza divina,  la quale  invia i due spiriti per seguire i figli del bene e quelli del male,  lacerati nell’eterna lotta (Cfr. Regola della Comunità ,in Luigi Moraldi,  I manoscritti di Qumran, Tea 1994  III 16-25; IV 1-26)

Anche il mondo persiano  è pervaso dalla ricerca di Arta, anche se il nome di Zoroastro non è mai presente nelle iscrizioni achemenidi, mentre è attestato il nome di Ahura Mazd : è innegabile , comunque,  che l’imperium  dei “re dei re” abbia avuto una forte impostazione giuridica e morale zaratustriana, testimoniata e dalla cultura giudaica e da quella greca.

E’ patrimonio culturale del Persiano inoltre l’antinomia , Asha /Druj , in cui l’area semantica del primo termine ingloba sia Verità che Giustizia, che risultano idee complementari, mentre quella del secondo marca sia la Menzogna che l’Ingiustizia.
In più parti Zaratustra si definisce “ un sincero nemico del seguace della Menzogna e un potente sostegno dei seguaci della verità “(Cfr. R.C. Zaehner, Zoroastro e la fantasia religiosa,trad, Ital. Milano 1962,p.33).

Perciò i persiani nobili sono educati fin da bambini alla Verità e se non sono leali perdono lo Xvarenah  non hanno più quel Charisma che permette loro di governare e di avere rapporto  autorevole con gli altri.

(Circa la sincerità cfr. Erodoto,Storie, I,136; Platone, Alcibiade, I,122a; Nicola di Damasco, F Gr Hist 90 F62; Strabone, Geografia, XV, 3, 18)

Anche nell’iscrizione di Behistun, voluta da Dario (cfr. A Pagliaro-A Bausani, Storia della letteratura Persiani, 1960, pp 22-28) si legge: perchè io non ero sleale, perchè non ero bugiardo,non ero violento, né io né la mia famiglia, secondo Giustizia  io mi comportavo.”

Sembra perfino che Dario si ribella al padre Artaserse, che già preferiva l’altro figlio Oco, perché era scaduto nella sua Xvaranah quando gli aveva promesso Aspasia e poi  dopo avergliela data, l’aveva relegata come sacerdotessa in un tempio e molti si sentivano sciolti dal giuramento di fedeltà col vecchio re spergiuro.(cfr. Plutarco, Vita di Arato ed Artaserse).

La cultura greca ha tramandato il grande rispetto per la giustizia dei persiani che è una caratteristica  dei  magi, la casta sacerdotale, ridimensionata, ma sempre operosa nel quadro del culto e della pietà achemenide.

La Bibbia postesilica e Filone insistono sulla educazione, come anche i Vangeli e i testi qumranici, come basilare per la formazione di un giudeo.

Dall’esame comparato ci deriva un quadro morale, certamente derivato dalla cultura iranica, ma  ben integrato nella tradizione giudaica, basata sull’euergesia e sulla aletheia  (ben fare e dire il vero), tanto da essere diventato un’espressione tipica dell’etica del “popolo eletto”.

Prima di”  leggere”dall’angolazione di Filone e dei Vangeli ci sembra opportuno, rilevare come i Qumranici di Regola dell’Assemblea, che probabilmente comprendono i fautori del “Regno dei  cieli”  galilaici, siano pervasi di giustizia  e siano riformatori del culto, del tipo di Esdra, desiderosi di un Nuovo patto di Alleanza, e perciò risentano di quella stessa influenza medica, forse per un’esigenza di separazione dalla cultura ellenistico-romana, aborrita.

Gli esseni di Qumran sono sadoqiti, sacerdoti discendenti da Sadoc,(anche se non sappiamo da quale linea esattamente derivino,) che sono collegati con i sadoqiti del tempio di Leontopoli, in Egitto, con i Terapeuti, che anelano ad un nuovo sacerdozio, poiché quello tenuto dai sadducei, gerosolomitani, è illegittimo.

Essi hanno una coscienza di separazione in linea con la concezione di dissociazione  dal mondo e dalla politica perseguita dai tempi dell’esilio: per loro l’interiorità, in quanto spiritualità, deve essere separata dalla loro formalità esteriore.

Essi sanno che Giasone, fratello di Onia III,” benefattore della città ,difensore del popolo e zelante della legge” ( II Macc. 3.1,15.12)  passato  all’ellenismo, era stato contrastato da  Menelao ed  era stato costretto all’esilio a Sparta, dove moriva insepolto e che, dopo di lui iniziava una successione illegittima nel sacerdozio gerosolimitano.

Essi riconoscono solo la stirpe di Onia IV, trasferita in Egitto come legittima e che quella degli Asmonei  prima (costituita arbitrariamente al tempo di Gionata , maccabeo) era sacrilega e che quella di Erode il Grande (che aveva creato sommo sacerdote il Babilonese Ananelo ) poi  era  anch’ essa illegittima.

I sadoqiti quindi sulla base sacerdotale predicano l’avvento di un nuova era, di un nuovo patto ed hanno l’adesione popolare ed attendono un Mashiah, un laico che, unto dal signore ricrei  un patto nuovo, faccia trionfare la giustizia  sulla terra, abolendo ogni altro regno, dopo aver punito i figli delle tenebre, i sacerdoti del tempio, i loro seguaci ellenizzati, palestinesi e quelli della diaspora e i nemici stranieri, i Kittim romani ed alleati ( Cfr. Esseni, quod omnis probus in www.anglofilipponi.com) .

La loro regola sottende sinteticamente il nuovo processo formativo ed educativo dei figli della luce ed ha certamente punti di contatto con il sistema legislativo di Nehemia e con quello riformistico di Esdra, che  sono chiaramente influenzati dalla cultura persiana.

E’ quindi la regola dell’Assemblea, connessa d’altra parte in vario modo al Documento di Damasco, alla Regola della Guerra e ancora di più alla Regola della Comunità  un anacronistico “percorso” di sacerdoti  zelanti della legge, che considerano i sommi  sacerdoti del Tempio illegittimi e delegittimano perciò la stessa autorità laica costituita!.

Queste opere esprimono il pensiero di uomini che condannano il popolo perché è contaminato dal “benessere commerciale e industriale” dell’ellenismo e perché  ha deviato dalla retta via: i sacerdoti perciò  ritengono necessario seguire di nuovo il modello di Esdra di purificazione e  di guerra: i romani, invasori,  e l’ellenizzazione sono i due attuali nemici da combattere e da sterminare, come allora i persiani e la medizzazione.

Per comprendere bene i processi di un popolo,- che, educato alla Torah  e represso, tende da bambino, sempre a mantenere inalterata la sua fede- bisogna considerare il sistema educativo sacerdotale, impostato sull’organizzazione  e l’obbedienza   e rilevare come  nei momenti  di pericolo esterno  le forze represse si coagulino intorno al clero, emblema della legge e della giustizia: in questo clima di reazione domina la regola e con essa i sacerdoti, che sbandierano Verità e giustizia, in nome di Dio, fanaticamente per ritrovare un proprio equilibrio dopo lo scontro “religioso”, sempre considerato vittorioso dai superstiti, come evento voluto da Dio.

La condanna dell’ellenismo era iniziata già con Gesù ben Sirach  che aveva considerato la religione giudaica un insegnamento  di sapienza superiore ad ogni saggezza umana  pagana ed era convinto che la vittoria sarebbe stata dei depositari della fede.

Chiaramente il siracide ha piena coscienza che la fazione dominante sacerdotale  è ormai ellenizzata e che è filo seleucide

D’altra parte  Antioco IV  senza capire la particolare fides giudaica, incapace di ogni commistione  con la religione greca, aveva inteso il rifiuto giudaico popolare come un’offesa alla sua regalità divina  e come una insubordinazione ostinata.

Aveva fatto perciò violenza contro la cultura giudaica, favorito dal clero che seguiva le sue disposizioni  e che già era ellenizzato.

L’ostinata lotta e la ribellione conseguente del 168  avevano dimostrato l’animus giudaico e la sua volontà di separazione: il libro di Daniele ne è una prova in quanto l’autore invita a resistere e a rimanere saldo nella coscienza della PRESENZA di Dio e nella certezza della vittoria.

In effetti però il fariseismo, cioè la separazione di religione e politica, è una coscienza tradizionale giudaica che si disinteressa della vita politica e che vive solo di spiritualità.

La rottura di tale tradizione avviene nel mondo giudaico solo in casi di esasperazione: infatti la mistione di sacerdozio e di potere politico degli asmonei, la perdita di autonomia ad opera dei romani, l’investitura del perfido civis  idumeo Giulio  Erode e dei suoi figli erodiani, filoromani  determinano un movimento nazionalistico che inizialmente è popolare e che solo più tardi ingloba il fariseismo, nelle sue varie anime, compresa quella essenica.

Il movimento nazionalistico comunque ha come guida il fariseismo solo a seguito dell’inasprimento del dominio romano e del processo di ellenizzazione romano ellenistica, avvenuto in epoca augustea, nel corso del Regno di Erode, specie negli ultimi anni.

Il fariseismo altrimenti tendeva ad una sua interiorità e quindi non si lasciava compromettere da ogni forma politica: la punta avanzata di tale schieramento, quella essenica, ancora più tardi, forse nel periodo di Jehoshua Barnasha, si compromette con il nazionalismo giudaico popolare, diventando la voce della ribellione stessa in nome di Dio…

Filone e La Regola dell’Assemblea

Per un migliore confronto tra la cultura medica ebraica e la cultura essenica,

leggiamo, dunque la Regola dell’Assemblea, tratta da L. Moraldi , I manoscritti di Qumran, ibidem:

  1. E’ questa la regola per tutta l’assemblea di Israel, alla fine dei giorni, quando si uniranno alla comunità per camminare 2.in conformità al giudizio dei figli di Sadoc, i sacerdoti, e degli uomini del loro patto che hanno rifiutato di camminare  sulla via 3. del popolo: sono questi gli uomini  del suo consiglio i quali hanno custodito il suo patto in mezzo all’ empietà per espiare la terra.

4.Allorchè giungeranno, raduneranno tutti gli arrivati dai bambini alle donne e leggeranno alle loro orecchie 5. tutti gli statuti del patto e li istruiranno in tutte le loro disposizioni affinché non sbaglino, commettendo inavvertenze.

6.E questa è pure la regola per tutte le milizie dell’assemblea per ognuno che è nato in Israele.

Fin dalla giovinezza 7. lo si istruirà sul libro della meditazione e , secondo la su età, lo ammaestreranno sugli statuti del patto, ed egli  8.riceverà la sua educazione nelle loro disposizioni per dieci anni, dall’ingresso nelle categoria dei ragazzi.

All’età di 20 anni passerà 9. tra gli arruolati, entrando, in base, alla sorte, in mezzo alla sua famiglia, in comunione con l’ assemblea santa e non si accosterà 10.ad una donna per conoscerla, per giacere da maschio, se non quando egli avrà compiuto i 20 anni, allorché conoscerà il bene 11. e il male.

Allora lei sarà accettata per testimoniare su di lui le ordinanze della legge  e per partecipare all’udienza delle decisioni 12. con pieno diritto.

All’età di 25 anni entrerà a partecipare alle strutture fondamentali dell’assemblea13. santa, per compiere il servizio dell’assemblea.

All’età di 30 anni potrà essere promosso ad arbitrare una lite 14. e un giudizio, a prendere posto a capo delle migliaia di Israele, tra i comandanti delle centurie e ai comandanti delle cinquantine,15. tra i comandanti delle decurie, tra i giudici e i funzionari secondo le tribù e in tutte le loro famiglie, in obbedienza ai figli 16. di Aronne, i sacerdoti, e a tutti i capi famiglia dell’assemblea che la sorte ha designato a partecipare 17. ai servizi ed entrare davanti all’assemblea. E secondo la sua istruzione, congiunta alla perfezione della sua vita, rinsaldi i suoi fianchi per il posto (assegnatogli) nell’esercizio.

  1. del servizio, della sua opera in mezzo ai suoi fratelli. Sia molto o poco ciò per cui è al di sopra di quello, ognuno onorerà il suo prossimo.19 Con l’aumentare degli anni di ognuno il compito in servizio dell’assemblea gli sarà affidato proporzionalmente alle sue forze.

Ma nessun uomo poco dotato 20. entrerà nel sorteggio per accedere a un posto sopra l’assemblea di Israele per  emettere una sentenza o per assumere una carica dell’assemblea 21.o per accedere ad un posto nella guerra  destinata ad abbattere le nazioni. La sua famiglia lo iscriverà soltanto nell’elenco della milizia e farà il suo servizio da operaio secondo il mestiere.

I figli di Levi staranno ciascuno al suo posto, 23. agli ordini dei figli di Aronne, per fare  entrare  e far uscire tutta l’assemblea, ognuno al suo posto, sotto il comando dei capi 24. famiglia dell’assemblea-capi , giudici e funzionari secondo il numero di tutte le milizie -al comando dei figli di Sadoc, i sacerdoti, 25. e di tutti  i capi famiglia dell’assemblea.

E quando vi sarà la convocazione di tutta la congregazione per un giudizio o 26. per un consiglio della comunità o per una convocazione militare, li santificheranno per tre giorni, affinché ognuno che viene sia sia preparato per la data fissata.

Questi sono gli uomini da chiamare al consiglio della comunità, a partire dall’età di 20 anni…: tutti  28. i sapienti dell ‘assemblea, gli intelligenti e gli istruiti , quelli la cui vita è perfetta, e gli uomini coraggiosi unitamente 29. ai capi tribù a tutti i loro giudici ai funzionari ai capi delle migliaia e ai capi delle centurie II,1 delle cinquantine e delle decurie  e ai Leviti, ognuno nella sua divisione di  servizio. Questi 2. sono i notabili chiamati al convegno, coloro che sono convocati al consiglio della comunità, in  Israele3.alla presenza dei figli di Sadoc,i sacerdoti. Chiunque sia colpito da una qualche impurità 4. umana, non entrerà nella congregazione di Dio.

Chiunque è colpito da queste sicché non possa tenere un 5.posto nell’assemblea e chiunque è colpito nella sua carne, paralizzato ai piedi o 6. alle mani  zoppo o cieco o sordo o muto , colui che è colpito nella sua carne da una tara  7. visibile agli occhi un uomo vecchio, vacillante, da non poter reggere in mezzo all’assemblea, 8.costoro non entreranno a partecipare in seno all’assemblea dei notabili, giacché angeli 9. santi sono nella loro assemblea .Se qualcuno di costoro ha qualcosa da dire al consiglio di santità, 10. lo interrogheranno;ma questa persona non entrerà in seno all’assemblea, poiché è colpita.11. Questa sarà la seduta dei notabili, chiamati al convegno per il consiglio della comunità, quando Dio avrà fatto nascere 12. il messia in mezzo a loro. Entrerà il sacerdote a capo di tutta l’assemblea di Israele e poi tutti 13. i suoi fratelli, i figli di Aronne,, i sacerdoti i chiamati a convegno, i notabili, e siederanno 14.,davanti a lui, ognuno secondo la sua dignità.

Dopo entrerà il Messia di Israele e davanti a lui siederanno i capi15. delle tribù di Israele, ognuno secondo la sua dignità, in base al suo posto nei loro accampamenti e secondo le loro disposizioni di marcia.Tutti 16.  i capi famiglia dell’assemblea, con i sapienti dell’assemblea santa, siederanno davanti ad essi, ognuno secondo 17. la sua dignità.

E quando si raduneranno alla mensa comune oppure a bere il vino dolce, allorché la mensa comune sarà pronta 18. e il vino dolce da bere sarà versato, nessuno stenda la sua mano sulla primizia 19. del pane e del vino prima del sacerdote, giacché egli benedirà la primizia del pane 20. e del vino dolce e stenderà per primo la sua mano sul pane.

Dopo, il messia di Israele stenderà le sue mani 21. sul pane e poi benediranno tutti quelli dell’assemblea della comunità, ognuno secondo la sua dignità. in conformità di questo statuto  si comporteranno 22. in ogni refezione, allorché converranno insieme almeno dieci uomini.

Dalla lettura , al di là dei problemi esegetici e  storici, sembra possibile rilevare che l’assemblea  (’edah) è una comunità essena di “puri”,organizzati anche militarmente , che “camminano” secondo il patto e combattono contro chi si è allontanato dal patto, nella certezza del ritorno di Israel, come inizio della fine dello stato pervertito presente, dominato dai falsi sacerdoti e dalla cultura ellenistica, esprimenti il regno del male , le tenebre, Belial.

I giusti sono convinti di essere nel tempo apocalittico e  quindi escatologico.

E in secondo luogo è rilevabile la presenza di due guide , due unti che realizzeranno, con l’aiuto di Dio, il trionfo del bene , della giustizia e della legge del nuovo patto : la regolamentazione è funzionale a tale ritorno di Israele e propedeutica alla lotta vittoriosa sotto la guida degli unti del signore.

I giudici  come capi  e la giustizia, come virtù essenziale  al pari di prudenza, temperanza e fortezza, hanno un grande rilievo nel quadro del reclutamento e dell’organizzazione essenico-qumranico.

La “regola”  è soprattutto ricerca di giustizia, che è la virtù di tutta la comunità che “cammina in conformità al giudizio dei figli di Sadoc “, che “ha custodito il suo patto in mezzo all’empietà per espiare la terra”.

Ed essa è connessa con La regola della Comunità(Cfr, L. Moraldi, op. cit. ), dove sembra che il Maskil ( il saggio)  istruisca i “santi” a vivere  secondo le regole  comunitarie :

 “a cercare Dio con tutto il loro cuore e con tutta la loro anima e a fare ciò che è bene e retto dinanzi a  lui 3. come ha ordinato per mezzo di Mosé  e per mezzo di tutti i suoi servi e profeti; affinché amino 4. quanto egli ha scelto ed odino quanto egli ha respinto, affinché si tengano lungi da ogni male  5. e si applichino a tutte le opere buone, affinché pratichino 6. sulla terra la verità,  la giustizia   e il diritto; affinché non vivano nella ostinazione del loro cuore colpevole e degli occhi adulteri 7. commettendo ogni male; affinché introducano nel patto di grazia tutti coloro che sono volenterosi nell’adempimento degli statuti divini;8. affinché si uniscano nel consiglio di Dio e camminino davanti a lui nella perfezione di tutte 9. le cose  rivelate  nei tempi stabiliti delle testimonianze per loro; affinché amino tutti i figli della luce, 10. ognuno secondo il posto che ha nel consiglio di Dio e odino tutti i figli delle tenebre , secondo la colpevolezza, che ha 11. di fronte alla vendetta di Dio…”

Da queste regole  deriva un’organizzazione da una parte militare e da un’altra religiosa e cultuale che divide i buoni dai cattivi , i destinati alla vittoria e al regno  e i sicuri vinti, capaci, comunque,  di trionfare solo a causa delle tenebre .

In questo senso il monito del Documento di Damasco(cfr L. Moraldi,op.cit,)  suona già condanna a morte per gli esclusi  e trionfo per i giusti :  “ a tutti  voi che conoscete la giustizia e comprendete le opere di Dio. poiché egli nascose il suo volto ad Israele e al suo santuario e  consegnò alla spada “ gli  infedeli, che deviarono “dai sentieri della giustizia”.

Arta, zaratustriana ed achemenide , è dunque anche la base in Israele di ogni educazione e formazione  specie per gli Esseni, uomini che attivamente praticano la virtù e per i Terapeuti, santi che interpretano la torah e che fanno vita contemplativa

Filone in tutta la sua opera parla della giustizia, come di un cammino  da percorrere , disagevole e dirupato , opposto alla via maestra delle strade romane e persiane, comode e larghe carrozzabili,  che è la via del ben dire e del ben  fare, in una fusione di teoria e pratica ( di Halakah e  Haggadah).

Nel presente trattato, parlando del “giudicare o per lezione o per sorte”, parla espressamente del giudice  e marca il termine giustizia, giudicare, giudicato, recuperando anche le altre tre virtù cardinali, prudenza fortezza e temperanza. sempre considerate unitariamente come cardini nell’educazione giudaica.

Il giudeo, come il persiano, educato alla giustizia solo dopo il trentesimo anno è giudice  e quindi ha capacità di valutazione tali che gli permettono di emettere una sentenza giusta, senza lasciarsi prendere emotivamente da chi parla sulla base del vedere e del sentire , a non lasciarsi corrompere da doni.

Infatti il giudice sa ( Deuteronomio,16.18-20) che “i doni accecano gli occhi, ostacolano la giustizia , costringono la mente ad allontanarsi dalla retta via” ed inoltre una volta divenuto corruttibile si abitua all’avidità, che fa commettere ingiustizia e fa condannare chi avrebbe dovuto avere giustizia.

Filone mostra sulla base della legge di Mosè che la causa principale di peccato è l’abitudine alla bugia.

Qui l’autore si diffonde a trattare dell’educazione sbagliata ad opera di donne prima e poi di servi ed infine a anche di liberi che permettono la bugia e la fanno radicare nell’animo

Filone  parla poi della necessità di un decondizionamento, tramite la pratica della verità , congiunta con la manifestazione, facendo l’esempio delle immagini nei discorsi: il dire il vero non ha significato se non è manifesto, se non c’è la cassa di risonanza contestuale, senza il clima di giustizia. che assicura la manifestazione.

E su questa base dà un terzo precetto : “che il giudice esamini le cause  delle parti:… e guardi non  le persone che sono giudicate  ma la pura e nuda natura della causa.. pensando che il giudizio è cosa di Dio, di cui il giudice è ministro e procuratore”.

Alla base c’ è la coscienza della funzione del giudice che deve pensare “di essere giudicato non meno di giudicare  “ e che perciò deve essere fornito di “prudenza per non essere ingannato”, di ” giustizia per dare a ciascuno il suo” e di “ fortezza per non essere piegato dalla preghiera e dalla pietà tanto da infierire sulle bande di delinquenti”

Filone ellenista e la giustizia

L’impostazione filoniana risente anche della tradizione della cultura giuridica greca, che si era sviluppata da Lisia  fino al diritto lagide (Cfr. Lisia): egli è un ellenista che accoglie della tradizione aramaica solo lo spirito, non la lettera che invece è interpretata allegoricamente sulla base di una traduzione greca, quella della Bibbia dei Settanta, che già di per se stessa in quanto non aramaica, è già eretica.

Filone perciò da una parte innova in quanto è eretico rispetto alla cultura della giustizia giudaica aramaica, ma dall’altra  è conforme alle prescrizioni della interpretazione ellenistica  giudaica della legge adattata secondo il nomos platonica ed originalmente impostata secondo la philantropia  (tzedaqah ) con applicazioni commerciali e bancarie.

La sua visione della giustizia è propria di un methorios, di uno che è al confine tra tradizione giudaica palestinese ed innovazione culturale ellenistica, di un progrediente verso forme ascetiche e mistiche che ha come modello Giacobbe/Irael, l’ebreo destinato a vedere Dio, ad essere terapeuta (cfr Vita Contemplativa, inizio).

Filone esprime, comunque, la giustizia come forma di Dio e  potenza della sua stessa volontà, di cui l’uomo è solo servo, secondo la lettura allegorica farisaica.

Da qui lo zelo di servire Dio come trionfo del suo nome, cui necessariamente segue l’amore verso  il prossimoal di là dell’amicizia e  famigliarità,cittadinanza  ed estraneità; da qui il giudizio conforme a verità.

D’altra parte il giudice non deve essere preso da commiserazione verso il povero perché egli svolge un servizio di giustizia: in altra sede devono essere la misericordia e la commiserazione per il debole, per il povero, per il bimbo, per la vedova: in sede di giudizio deve esserci solo la giustizia.

La legge è chiara e Mosè ha trattato in molti punti della necessità di proteggere gli elementi poveri ed indifesi, ma ha distaccato la pietà dalla giustizia, separando i giusti dagli iniqui.

In Legatio ad Gaium ci sono due passi in cui Filone parla della giustizia  romana, facendo solo la comparazione con quella giudaica e dando il suo personale giudizio. Nel primo dice espressamente parlando di Avillio Flacco, governatore tiberiano, valutato positivamente per  un quinquennio e negativamente nell’ultimo anno sotto Gaio a causa della precarietà della sua stessa vita , nel mutato panorama politico posttiberiano:”dopo pochi giorni emanò un editto, in cui ci chiamò inquilini e stranieri, senza darci la possibilità di intentare causa, ma condannandoci senza essere giudicati. Che cosa ci poteva essere di più tirannico di questo? lui in persona si arrogava la parte di delatore, di nemico, di testimone, di giudice, di esecutore di pena”.

Egli condanna l’auctoritas del giudice che tirannicamente  fonde tutte le  funzioni e ne invalida il giudizio, anche se rileva la straordinarietà del fatto perché in precedenza si rendeva vera giustizia “dandosi giudici equi, udite ed esaminate le parti, emettevano sentenza, senza che nessuno rimanesse ingiudicato e pronunciavano parere  né a favore né contro, ma secondo giustizia.”

Su Gaio Caligola invece nel secondo passo Filone dà un giudizio più severo: l’imperatore   viene visto come giudice, già intenzionato a condannare Flacco, che giudica per non sembrare che volesse emettere contro di lui una sentenza capitale per odio privato prima del giudizio, senza attendere né accusa né difesa.

Egli mostra la falsità del giudice e la ferocia del tiranno.

Vengono visti  gli accusatori di Flacco, come sottoposti, che  intentano un processo al loro superiore “un padrone  non può essere citato in giudizio da schiavi, nati in casa o comprati”

Filone qui condanna la politica stessa di Caligola che  proprio nel 38 a.c. favorisce la delazione dei servi a scapito delle classi egemoni senatorie ed equestri: egli coglie la volontà dell’imperatore di distruggere il senato e gli equites in quanto classi che hanno fatto condannare la sua famiglia e determinato la morte di sua madre Agrippina, dei suoi fratelli Nerone e Druso.

Per lui il giovane imperatore sovverte l’ordine divino delle classi sociali e favorendo i liberti diventa sovrano assoluto, in quanto non più controllato dall’auctoritas senatoria: è questo per lui già un atto contro la legge divina, anche se riconosce che il sovrano è nomos empsuchos .

Perciò il suo esame  tende a rilevare  la venale dimenticanza dei giudici, che  ascrivono  la lite perduta alla parte che avrebbe dovuto vincere. “Presa la ricompensa oltre l’ onorario, faceva risultare vincitore chi invece era perdente per diritto”.

In uno stato di non diritto, la mancanza di giustizia diventa emblema di assolutismo e Gaio Caligola simbolo di pazzia Moria/insania.

Caligola viene visto come giudice contro il popolo giudaico, accusato di empietà e di lesa maestà divina : Filone mostra il tiranno che giudica, non un giudice, facendo di lui l’exemplum di ogni ingiustizia

Il senso di Giustizia di Filone è quello della Bibbia e dei Vangeli: infatti c’è una profonda connessione tra il pensiero dell’alessandrino e il Vecchio testamento, ( cfr, Es.34,7;Num, 14,18;Eccl. 7,2o;Ne.1,3) anche se è sotteso qualche elemento della filosofia greca, specie platonica .

Egli ha chiaro il compito di giudice ben espresso in Legatio ad Gaium  350 . Compiti infatti del giudice  sarebbero stati questi: sedere con i consiglieri scelti secondo nascita, esaminare la causa rimasta inattesa  per 400 anni  ed ora per la prima volta  rimessa in discussione  contro diecine di migliaia di giudei  alessanderini,  disporre dall’una e dall’altra parte  i litiganti  con i loro sostenitori, ascoltare a vicenda  le parti a seconda della misurazione della clessidra,  chiamare a consulta i consiglieri, proferire quanto bisognava  palesemente con una sentenza  la più giusta possibile.

Il giudizio sui giudei alessandrini, però, non è una causa, ma una farsa e uno spettacolo  e non c’è tribunale, ma lo spettro di un  carcere. Infatti Caligola  accetta di riceverli  non in una sede ma mentre cammina  facendo una passeggiata in visita alle case di Mecenate e di Lamia, per un sopralluogo  circa la loro abitabilità e la loro possibilità di residenza urbana regale.

Non c’è l’ufficialità di un processo ma solo una peripatetica  discussione sui costumi giudaici, sulla loro astensione dalla carne di maiale e sulla loro opposizione alla divinità di Gaio .

Non c’è in Gaio neppure acrimonia né ostilità, ma solo commiserazione per un popolo attardato culturalmente che crede utopicamente: sono solo dei disgraziati  ….

Il suo giudizio non è una condanna, definitiva : l’amicizia per Agrippa che probabilmente ha ottenuto il permesso  di farli ricevere, seppure malato,  ha fatto dire solo parole ed  ha impedito la morte di tutta la legazione.

Caligola è convinto che senza imperium senza l’auctoritas/ exousia di un imperator/autocrator, di un solo monarca  non ci può essere giustizia  nell’oikoumene e che il mondo senza la sovranità imperiale cadrebbe nel caos  a cominciare  da Roma e dall’ Italia  perché mancherebbe la giustizia, cioè il Theos nomos empsuchos.

Caligola ha un visione cosmopolita in quanto è sovrano di molte genti,  eguali davanti al suo potere giuridico, previa integrazione nella paideia greca e nella cultura  della tradizione quiritaria!.

Filone, invece, conformato secondo i prostagmata lagidi e poi cesariani ed augustei ha una visione privilegiata del giudeo ellenista, protos in Alessandria e nel mondo romano: da ebreo, figlio ed erede del Padre  non comprende l di  trovarsi di fronte un Theos,  un innovatore rivoluzionario,  che ha già reso,   a Roma,  mediante l’obbligo della salutatio matutina,  sudditi senatori ed equites!

C’è in Caligola la volontà di essere unico sovrano del gregge umano!

Solo chi è al di sopra delle parti è in grado di assicurare  la giustizia  in quanto  sa subordinare il bene privato al bene comune:  è lui stesso il garante dello stato e stato stesso!

E’ legge vivente/ Nomos empsuchos  Caligola come già Cesare! Germanico, più di Augusto e  Tiberio,  vuole l’unione tra popolo e imperatore, tra militari ed imperatore  e cerca di rinsaldare il rapporto nel corso della sua breve vita!

Il figlio sempre più e con ogni mezzo- anche con  la celebrazione dell’epiphania divina, durata un anno- stringe  i legami con i populares :  è rappresentato teatralmente il  suo sentimento di giustizia  nonostante la sua fierezza aristocratica  e la  sua coscienza che la natura fa nascere uno servo ed uno comandante.

Caligola ha chiara  la  sorte umana  come status di tutti  nati per servire e di uno per comandare, in una precisa  definizione della paritarietà tra i sudditi e della distinzione netta tra governati e l’imperatore: Uno è il capo: gli altri, tutti eguali, sono gregge!

Per Caligola le masse avevano diritto paritario alla giustizia rispetto alle altre classi , ridotte alla stessa  condizione in quanti soggette allo stesso modo  e allo stesso sovrano: la giustizia uguale per tutti al di là della stirpe e del censo.

Solo con la stabilizzazione della divinità imperiale si ottiene  la iustitia  per i sudditi, i  cui diritti vengono calpestati in provincia  dai proconsoli  e dai pubblicani e in Roma dai  patres senatorii che si congiungono con gli equites e privano il popolo delle forme sociali e le corrompono attraverso le competizioni elettorali,  pilotate.

Caligola, dunque, riprende con il suo stato assolutistico il disegno cesariano connesso  in un certo senso con il sistema graccano…

In questo modo livella le classi sociali  abolendole e non  solo sostiene lo sviluppo dell’impero   e ripristina le prerogative tribunizie ma anche estende il diritto  di cittadinanza, tutela le assegnazioni  di terre le distribuzioni di grano,  lo stesso ius provocationis  il valore delle assemblee e la loro promulgazione di legge  e la applicazione locale.

Col dare giustizia il monarca  con  la sua divina supremazia  avrebbe conciliato le necessitates della plebe urbana e di quelle provinciali  e soddisfatto il loro bisogno di pax interna,  favorendo il commercio  tra le singole parti imperiali, Occidente ed Oriente,  senza l’alterigia nobiliare e  senza la tracotanza finanziaria dell’economia equestre: Caligola  persegue questo programma dopo l’ektheosis,  conscio che la sovranità imperiale divina è al di sopra della stessa sovranità popolare (cfr. De Iosepho).

Attua questo con uno studiato piano   con logica implacabile, direi con virtuosismo di un giurista,  proprio di una mente sublime e lo  porta alle estreme conseguenze  per avere in mano la  legge  e il popolo.

Dunque, Caligola  inventa l’assolutismo nella sua reale applicazione senza la falsità della auctoritas augusta, andando oltre  la funzione legalistico-amministrativa della basileia ellenistica !?

I suoi molti imitatori  Domiziano, Commodo, Caracalla, Alessandro  Severo non capiscono  l’aristocrazia caligoliana e  la sua democratica visione storica e tanto meno  intendono la sua infinita tensione al Divino  con la monarchia divinizzata come base  del potere!.

Le sue vittorie parthiche o germaniche (da cui sarebbe venuto il benessere generale) – col voto  senza appello  plebiscitario e con la forza degli eserciti- avrebbero  concesso  non solo consensi unanimi ma anche  sarebbero state fonte di  denaro  necessario per la integrazione dei popoli per altre campagne militari e per le riforme democratiche  e contemporaneamente avrebbero salvaguardato la disciplina romana e formato un’altra cultura  cattolica, universalistica, fusa con la cultura ellenistica.

Al di là comunque dei fatti avvenuti nel periodo di Caligola la giustizia  è romana, vista anche da Filone, dopo la morte del  tiranno e  il suo regolare ripristino con Claudio – che ristabilisce il  tradizionale kosmos, l’ordine con il riconoscimento dei diritti degli ebrei di Alessandria e di tutto l’ecumene  sulla base dei precedenti atti giudiziari sia romani che lagidi-.   

Da quanto  risulta dalle comparazioni fatte, però,  sembra  che   esiste  una profonda identità tra formulazioni filoniane e quelle neotestamentarie (Mt. 6.12; Lc, 17,3.10; Rom. 7, 1 sgg; Gal. 3, 22 Ef. 2,3 ecc.).

In conclusione, la giustizia è virtù fondamentale per il giudeo e per Gesù  stesso, giudeo,  che  la esprime come bisogno fisico nelle Beatitudini (Mt 5,6):”Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati”, come nutrimento essenziale della vita umana.

Filone  è desideroso di evidenziare la superiorità degli eletti ed è cosciente che il sapiente vive in una dimensione superiore, quella della morale, che diventa il limite o meglio è segno di  elezione: i giusti e gli ingiusti non possono essere confusi.

Il giusto non giudica, ma non deve essere accusato: Dio è il suo patronus; il regno della giustizia è già un segno della sua predilezione e della sua presenza.

In molte altre opere  ( De Josepho, De  migratione, De vita Moesis ecc) Filone dimostra come la vita giudaica si realizza solo seguendo la giustizia e come Abramo, Giacobbe e Giuseppe  abbiano segnato le tappe di un cammino di giustizia, che è in effetti quello della santità giudaica, come realizzazione conforme dei precetti della Legge, come moralis come  euergesia, come Haggadah.